Colloqui con i genitori,
fattore di stress: i consigli dello psicologo su come affrontarli al meglio
di Eleonora Fortunato - Come comportarsi
col genitore ‘negazionista’? E col genitore ‘sindacalista’? Come arginarlo se
ci vuole insegnare il mestiere? Su un piano diverso, poi, come comunicare il
dubbio di un ‘bisogno educativo speciale’ mai diagnosticato prima? In coincidenza
con le consegne alle famiglie delle schede quadrimestrali, vi proponiamo un
piccolo vademecum redatto col contributo di Daniela Grimaldi.
Spesso per gli insegnanti, soprattutto se alle prime armi, i colloqui e in
generale le relazioni con i genitori possono essere fonte di grande ansia e di
stress. Qual è in generale il miglior contegno da tenere? Meglio cercare
l’empatia o piuttosto optare per un distacco più professionale?
“Le relazioni con i genitori possono mettere ansia ad
un insegnante, in quanto momento di incontro con l’altro ‘sconosciuto’, con la
diversità. E ciò che non conosciamo genera sempre un certo grado di ansia. Il
modo migliore per entrare in relazione con questa alterità è quello di provare
a creare un canale di comunicazione autentico, ponendosi in ascolto dell’altro
e del suo mondo e sgombrando il più possibile il proprio spazio mentale per
accogliere l’altro. Trincerarsi dietro al ruolo professionale è solo un modo
per difendersi dall’incontro, non una modalità efficace per gettare le basi di
una relazione”.
Quanto conta anche
nella relazione con i genitori il riconoscimento delle emozioni ?
“Saper riconoscere le emozioni proprie e dell’altro è
fondamentale in tutte le relazioni, tanto più nella relazione con il genitore,
che dovrebbe mirare a creare un‘alleanza efficace e costruttiva per la crescita
psicofisica dell’alunno. Ignorare le emozioni presenti nella relazione
significa ignorare una dimensione ineliminabile della vita umana, che dà
sostanza e corpo ai nostri atteggiamenti, alle nostre disposizioni e orienta le
nostre stesse azioni. Prezioso, quindi, sarà per l’insegnante interrogarsi sul
suo personale vissuto (di successo, insuccesso/fallimento, frustrazione, ecc.)
rispetto alle capacità acquisite dall’alunno, ma anche riflettere sulle
aspettative del genitore rispetto al figlio, sul significato profondo che egli
dà al processo di istruzione, sul senso di adeguatezza o meno che vive rispetto
all’istituzione scuola e al docente, ecc. Queste emozioni e queste fantasie
permeeranno inevitabilmente la relazione insegnante/genitore, diventandone
un’insostituibile chiave di lettura.
Un insegnante che non dia adeguato riconoscimento alle
emozioni in campo non solo rischia di fallire la possibilità di creare con il
genitore l’alleanza necessaria, ma anche quella di comprendere ciò che spingerà
quel genitore a comportarsi in un determinato modo, rendendo vano, se non
addirittura inefficace, ogni suo futuro intervento educativo”.
Adesso proviamo a
entrare nei casi vivi: “Suvvìa, cosa sarà mai… tutti siamo stati ragazzi”. Che
fare col genitore che di fronte a problemi di profitto o di comportamento
minimizza?
“Fare degli esempi concreti può essere molto utile per
i nostri lettori, ma ci terrei a sottolineare che ogni caso va valutato e
considerato solo nella sua specificità, e che quelle che fornirò possono solo
essere indicazioni di massima e non leggi universali.
In generale, il genitore che minimizza le difficoltà
scolastiche o comportamentali del proprio figlio sta difendendo l’immagine idealizzata
del figlio sano/perfetto, e l’altrettanto idealizzata immagine di sé stesso
come genitore infallibile. Confrontarsi con le difficoltà del proprio figlio
significa confrontarsi innanzitutto con la propria fallibilità e i propri
limiti”.
E col ‘negazionista’?
“Mio figlio si impegna, studia tutti i giorni. Solo che è un po’ timido, si fa
trascinare dal gruppo…”.
“Anche il genitore che nega la responsabilità del
proprio figlio, scaricandola su altri (i compagni, l’ambiente scolastico), è in
difficoltà rispetto alla possibilità di assumere su di sé la responsabilità (do
per scontato che sia chiara a tutti la distinzione tra responsabilità e colpa).
Molto utile può essere, allora, aiutare il genitore nel processo di assunzione
della responsabilità, contenendo i suoi eventuali vissuti di colpa e di
fallimento. E soprattutto stando ben attenti a non scivolare mai in un’ottica
colpevolizzante (questa regola vale sempre, ma ancora più in questi casi, dal
momento che spesso la difficoltà ad assumersi una responsabilità, poggia
proprio su una fantasia di colpa). Il colloquio con il genitore non deve
diventare mai un processo, ma un momento per riflettere insieme, su quello che
non funziona, su ciò che impedisce l’evoluzione e sulle strategie e le risorse
attivabili per aiutare il ragazzo nel suo percorso di crescita”.
C’è poi sempre il
‘sindacalista’, che difende i diritti del figlio in qualsiasi situazione.
“Il genitore che difende i diritti del figlio in
qualsiasi situazione vive evidentemente la scuola come nemico e l’insegnate
come persecutore, per cui va aiutato a considerare che tutto quello che si sta
dicendo o facendo è proprio nell’ottica di sostenere il figlio nel suo processo
di crescita e di formazione, e non per farne una vittima sacrificale. Attenzione,
però, anche qui, suggerirei comunque a tutti gli insegnanti di interrogarsi
sempre sull’effettiva necessità ed efficacia di certi interventi “punitivi” o
”ristrettivi” nei confronti dei ragazzi”.
Potrebbe capitare
anche di imbattersi nel genitore ‘giudice’, che sottopone il docente a un vero
e proprio interrogatorio sulla sua formazione, sui titoli, sulle esperienze di
insegnamento.
“Il genitore che si fa giudice delle capacità e del
curriculum dell’insegnante sta attaccando in modo evidente la funzione
professionale del docente. E’ anche questo un modo per difendersi dall’incontro
con l’altro, soprattutto là dove sono presenti vissuti di inadeguatezza
rispetto al docente e all’istituzione scolastica. Solo una sana fiducia nella
propria professionalità premetterà al docente di sottrarsi con serenità ad un
simile attacco, riportando il genitore alla problematica oggetto del colloquio.
È chiaro che esistono altri organi deputati a valutare le competenze e il
curriculum di un insegnante”.
Che fare col genitore
‘direttivo’? “Lei deve fare così, così e così…”
“Innanzitutto, direi, ascoltare. Non è detto che
dietro a tanti generosi consigli non si nasconda qualche prezioso suggerimento
per entrare in comunicazione con quel ragazzo che sembra tanto difficile. Il
colloquio con i genitori è un’occasione anche per il docente per riflettere e
confrontarsi con il genitore che dell’alunno dovrebbe avere una visione più
intima e familiare. Se i toni sono effettivamente tanto direttivi, però, può
essere necessario, ricordare al genitore che ogni relazione è caratterizzata da
una sua specificità, e che in essa ognuno può trovare solo le modalità di
risposta che gli appartengono”.
E col genitore che
scambia il colloquio per uno ‘sportello psicologico’?
“In base a quanto detto finora, (l’attenzione che
l’insegnante dovrebbe dedicare alle emozioni del genitore e alle proprie, la
capacità di contenere specifici vissuti, ecc.) il momento del colloquio
dovrebbe avvalersi sempre di una valenza psicologica. Ma a tutti i genitori che
travalicano, portando una richiesta massiccia, si può semplicemente ricordare
il proprio ruolo professionale di insegnante e non di psicologo. Infatti, se da
un lato è fondamentale per un insegnante poter affinare la propria sensibilità
psicologica, dall’altro la figura dello psicologo all’interno dell’istituzione
scolastica è insostituibile”.
Infine, veniamo a una
situazione più delicata: nel caso in cui il docente debba comunicare il dubbio
di una dislessia o di una qualsiasi altra forma di disagio, quali precauzioni è
bene mettere in atto?
“Per prima cosa vorrei sottolineare il termine da lei
scelto: il dubbio. L’insegnante, per quanto esperto (nessuno me ne voglia!),
non può fare diagnosi, ma solo esprimere un ragionevole dubbio. Spetterà poi
solo allo specialista del settore il compito di accertare la presenza di un
disagio, nonché di suggerire i possibili interventi efficaci. Detto questo, la
comunicazione ad un genitore della possibilità di un disagio psicologico, di
una problematica di apprendimento o di comportamento a carico di un alunno, è
un momento delicato in quanto rischia di attivare non solo preoccupazioni,
ansie, smarrimento e desideri di riparazione rispetto al figlio, ma anche
vissuti di fallimento e fantasmi di inadeguatezza. Come abbiamo già accennato,
poter accettare la presenza di una problematica di un figlio significa per un
genitore rinunciare all’idea di un figlio sano/perfetto e rinunciare
contemporaneamente all’immagine idealizzata di sé come genitore infallibile.
Nel rispetto di questi vissuti è fondamentale una certa delicatezza da parte di
chi comunica il dubbio di un disagio, chiarezza e semplicità nella definizione
della problematica, affinché il messaggio arrivi comprensibile al genitore, ma
anche una certa capacità di contenimento delle preoccupazioni e dello
smarrimento inevitabili. Molto importante sarebbe poter accompagnare il
genitore anche nell’accertamento della problematica. Consiglio a tutti gli
insegnanti, in questo senso, di avere sempre nella proprio rubrica qualche
nominativo di specialisti di fiducia (meglio se privati e pubblici) a cui poter
eventualmente inviare il genitore che ne sia sprovvisto”.
Daniela Grimaldi, psicanalista che
lavora da anni nelle scuole della Capitale e membro del centro romano di
psicoterapia “Psicologia per tutti” (http://www.psicologiapertutti.com)
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