“Le cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare ed ascoltare......” fino a svelare che “per fare un tavolo ci vuole un fiore” e, a dir il vero, poi si scopre che “per fare tutto ci vuole un fiore”.
Le parole le ha regalate Gianni Rodari, la musica e la voce Sergio Endrigo. Da tempo, prima o poi, nel corso di un anno scolastico propongo ai bambini questa canzone o il suo testo illustrato. Cerco poi di aspettare le loro considerazioni, le loro ipotesi, le loro domande. Arrivano. Sempre. Basta saper aspettare. Questo, il saper aspettare, dovrebbe essere una delle mie abilità professionali fondamentali. Dovrebbe, perché poi in realtà, anche alla scuola dell’infanzia, viene richiesto da più parti di correre, di andar veloci. Non perché correre, saltare, toccare, annusare, guardare… siano tappe fondamentali della crescita, da vivere intensamente, ma solitamente perchè c’è sempre un adulto che ha fretta. Non c’è purtroppo il tempo di aspettare che un fiore diventi un tavolo. Purtroppo, se ad aver fretta sono i genitori, ingabbiati in tempi di vita che poco hanno a che fare con i tempi dei bambini (i tempi del lavoro quotidiano, il lavoro nero, le diffficoltà delle famiglie dei migranti ...). Purtroppo, se ad aver fretta sono insegnanti che temono di non programmare abbastanza le giornate a scuola, se non si forniscono prodotti che testimoniano di svolgere un lavoro.
Professionalmente sono un’insegnante di scuola dell’infanzia e appartengo alla tipologia di insegnanti che cercano di occuparsi maggiormente dei percorsi e dei modelli che i bambini esplorano, seguono, intrecciano, disfano e ricostruiscono ogni giorno, per costruire il pensiero. Mi interessa maggiormente il percorso prima del prodotto. Mi interessano i ‘’progetti’’ che si co-costruiscono con i bambini, imboccando strade solitamente non predefinite. Mi interessa soprattutto cercare di stimolare apprendimenti affinché i bambini possano essere adulti non ‘’con teste piene ma con teste ben fatte’’ - per utilizzare le parole d’Edgar Morin – o, per rinfrescare l’inesauribile Maria Montessori, a far si che i bambini possano essere in grado di dire ‘’aiutami a fare da solo’’. Mi interessa costruire mappe ed impararle a leggere con i bambini piuttosto che abituarli ad inserire il navigatore satellitare.
Alcuni anni or sono, in occasione dell’anniversario della dichiarazione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, conversando su questo tema con un gruppo di bambini (tra i 4 e 5 anni), uno di essi, sostenne:“ i bambini possono guardare il cielo e le stelle e volare, guardare le farfalle e nuotare nell’acqua leggera.”
Ci vuole tempo per fare questo; ci vuole tempo per ascoltare i bambini, per permettere loro di vivere i propri tempi ed insegnare che anche questo è un diritto dei bambini. Bisogna saper andare lenti. Essere un po’ tartarughe, un po’ lumache: animaletti strategici. Si portano dietro case, sanno proteggersi, sono molto longevi, sanno scavare ed andare sotto terra ma anche nuotare, arrivano da tempi remoti e vanno verso futuri. E se come esseri umani ci abbiamo messo cosi tanto tempo per comparire sulla terra e impieghiamo circa nove mesi (ben circa 280 giorni) per prepararci alla nascita, dove dobbiamo correre? Dove devono correre i bambini se non soltanto verso la scoperta del tempo e dello spazio, delle relazioni che li legano e di quelle che legano gli umani al tempo e allo spazio disponibile sulla Terra? Devono prepararsi per essere unici, come una celebre rosa che ‘’sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i petali ad uno ad uno’’
[1].
Gianfranco Zavalloni è stato il pedagogista che ha definito (e forse avrebbe maggior senso dire il pedagogista che ha avuto la coerenza di ricordare) quali siano i diritti indiscutibili dei bambini, i diritti naturali, che ha cosi elencato:
1
IL DIRITTO ALL’OZIO
a vivere momenti di tempo non programmato dagli adulti
2
IL DIRITTO A SPORCARSI
a giocare con la sabbia, la terra, l’erba, le foglie, l’acqua, i sassi, i rametti
3
IL DIRITTO AGLI ODORI
a percepire il gusto degli odori, riconoscere i profumi offerti dalla natura
4
IL DIRITTO AL DIALOGO
ad ascoltatore e poter prendere la parola, interloquire e dialogare
5
IL DIRITTO ALL’USO DELLE MANI
a piantare chiodi, segare e raspare legni, scartavetrare, incollare, plasmare la creta, legare corde, accendere un fuoco
6
IL DIRITTO AL BUON INIZIO
a mangiare cibi sani fin dalla nascita, bere acqua pulita e respirare aria pura
7
IL DIRITTO ALLA STRADA
a giocare in piazza liberamente, a camminare per le strade
8
Il DIRITTO AL SELVAGGIO
a costruire un rifugio-gioco nei boschetti, ad avere canneti in cui nascondersi, alberi su cui arrampicarsi
9
IL DIRITTO AL SILENZIO
ad ascoltare il soffio del vento, il canto degli uccelli, il gorgogliare dell’acqua
10
Il DIRITTO ALLE SFUMATURE
a vedere il sorgere del sole e il suo tramonto, ad ammirare, nella notte, la luna e le stelle
Per far questo, almeno a scuola, ci vogliono adulti/insegnanti che ricordino quanto gli umani siano vicini alla terra e di come siano anche un po’ alberi, con le radici affondate nella terra ma la chioma che guarda verso l’alto. “Un albero ascolta comete, pianeti, ammassi e sciami. Sente le tempeste del sole e le cicale addosso con la stessa premura di vegliare. Un albero è alleanza tra il vicino e il perfetto lontano”
[2].
E’ sempre la stessa storia, ci vogliono degli alberi e dei fiori.
Ci vuole una scuola che sappia davvero andare lenta, una ‘’slow school’’
[3] come la definisce Penny Ritscher che agisca con pedagogie da lumache
[4].
Una scuola abitata da adulti/inseganti che non abbiano paura di essere“ più lenti, più dolci, più profondi” (Alexander Langer). Cosi, forse, si procede come ben sa chi va in montagna: ognuno col proprio passo, rispettando il proprio e quello altrui. Vorrei aggiungere, responsabilmente. Con la responsabilità di chi svolge un mestiere che “gioca” durante i primi anni di vita dei bambini per permettere la strutturazione di adulti il più possibile capaci di costruire saperi, di agire con critica e responsabilità.
Un adulto/insegnante costantemente “homo faber” che lavora con e per sostenere la capacità di collaborazione
[5] e, aggiungerei, “homo agricola” che possa agire e proporre la capacità di saper attendere. In questa direzione la pratica della cura degli orti e dei giardini è forse una delle proposte pedagogiche e didattiche più interessanti ed efficaci che la scuola possa agire Cio’ non soltanto nel rispetto dei diritti naturali citati, ma per la possibilità che offre di lavorare sulle emozioni e le relazioni, non in maniera didascalica, fornendo le etichettature verbali ma sul concreto misurarsi del lavorare e vivere insieme. Ci vuol tempo per lavorare la terra, per la semina, per la maturazione, per il raccolto. Ci vuole responsabiltà per ricordarsi le innaffiature. Ci vuole tempo per imparare la cura nel scegliere il cibo e assicurare cibo a tutti (se adulti responsabili hanno teste ben fatte). Ci vuole tempo per imparare a farlo insieme.
“Noi bambini dobbiamo prenderci cura del giardino e dei sentimenti” - riporta Tiziana Sandro- sostenendo che il giardino è “metafora di un lungo raccolto, rimanda ad un’esperienza simbolica dove definire confini, disegnare paesaggi interni, smuovere terriccio, seminare, bagnare, diventano gesti rituali volti ad avvicinarsi al mistero del ciclo vitale”
[6]. Di nuovo, occorrono insegnanti che si assumano la responsabiltà di scegliere come impostare il proprio lavoro, che scelgano se strutturare ambienti, materiali, proposte che porteranno all’omologazione delle conoscenze o alla ricerca dei saperi. Per questo, occorrerebbe essere capaci di dare “valore didattico al silenzio epistemologico [...]. Ogni esperienza esige un vasto spazio per poter essere apprezzata in tutta la sua ricchezza e acquistare senso [...]. E’ percio’ necessario sospendere per un momento il vortice dell’azione [...], e riappropriarci di una dimensione sempre più compressa e rifiutata, quella dell’attesa”
[7].
Quella che puo’ riappropriarsi del silenzio “come atteggiamento d’ascolto, cioè d’accoglienza del pensiero altrui [...], come spazio “democratico” protetto dal pregiudizio [...]. Un silenzio pieno della memoria delle esperienze fatte , in cui le menti [...] possano esprimere e riconoscere le loro relazioni con il mondo [...]. Questo silenzio [...] è lo sfondo su cui la parola puo’ assumere forma e corpo di dialogo. Il dialogo [...] è un luogo dove si elaborano le conoscenze, dove si costruiscono teorie, [...]. Una conoscenza complessa, strutturata su relazioni più che su oggetti e concetti, trova in una situazione di interrelazioni vive il terreno più fertile per divenire anche rappresentazione e verbalizzazione, l’humus piu’ naturale per crescere e dare fiori e frutti”
[8].
“Più lenti, più dolci, più profondi’’.
Simonetta Musetti